La crisi dei generi nell’epoca della «Frigia Madre»

 di Alessandro Napoli

Zeus ed Era, Fontana di Pallade Atena, Vienna.

 Fluidità

 Sin dagli albori del secolo scorso, la società è stata colpita da una profonda e graduale crisi di valori che ha toccato plurimi aspetti della vita, dal mondo del lavoro alla stabilità famigliare, dai rapporti comunitari allo stesso individuo che è andato disgregandosi in molteplici “Io” in conflitto tra loro. Il leitmotiv di questa epoca, in cui il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro, ci è stato presentato come un valore aggiunto, qualcosa di cui goderne e spacciato come un falso mito di progresso: la fluidità dei rapporti sia lavorativi che umani.

 Da un lato, come fa notare Z. Bauman, lo Stato sociale, che è l’incarnazione estrema e moderna dell’idea di comunità, la quale promuove il principio di un’assicurazione collettiva e sottoscritta dall’intera società contro le disgrazie individuali e le loro conseguenze, viene smantellato deliberatamente perché le fonti di profitto del capitalismo si sono spostate dallo sfruttamento della manodopera operaia allo sfruttamento dei consumatori, poiché essi – i consumatori e quindi i poveri – spogliati delle risorse necessarie per rispondere alle seduzioni dei mercati consumistici, hanno bisogno di denaro – non del genere di servizi offerti dallo «Stato sociale» – per risultare utili secondo la concezione capitalista dell’«utilità». Sul versante etico e morale, di conseguenza e di pari passo, si sono spinte istanze che hanno snaturato la civiltà rendendo appunto «liquida», mutevole la stessa natura umana nel suo più intimo profilo culturale, spirituale, persino biologico.

 La società idilliaca prospettata da T. Negri e M. Hardt si è rivelata essere niente altro che la proiezione di una metafisica del caos sullo stesso tessuto sociale, occidentale in primis ma non solo. Metafisica macabra e nefasta alla base delle macchinazioni di un’élite organizzata che attraverso la riaffermazione del dominio del mercato in senso totalizzante ha rotto i legami che tenevano unita la società, dalla fine dei partiti politici alla disgregazione religiosa delle comunità, ai legami famigliari e sociali oggi estremamente labili e non più vincolati da quei valori di lealtà, secondo cui l’antica saggezza, i rapporti umani servivano ad arricchire il tempo vivo e non il vuoto egoico.

 Processo questo che ha prodotto individui che teoricamente sono posti in connessione con il mondo attraverso internet e sempre più sofisticati sistemi di reti sociali, ma che in realtà si ritrovano da soli di fronte ad un universo globalizzato caotico e non più regolato dalle sacre leggi basilari che hanno sempre coeso le civiltà sin dall’antichità. Un mondo teoricamente più comodo e sicuro ha paradossalmente generato un incolmabile senso di insicurezza nell’animo umano, abbassando la stessa qualità della vita in confronto al progresso tecnologico e scientifico raggiunto.

 Allo stesso tempo la scomparsa delle figure forti – patriarcali o matriarcali – dei secoli passati hanno impoverito ulteriormente il semenzaio in cui le persone si formano, nascono e crescono permettendo alle comunità, alle Nazioni, alle civilizzazioni delle quali fanno parte di prosperare o comunque di essere il riflesso di quello stesso vigore, forza e stabilità. Epoca, la nostra, nella quale, ad esempio, sempre parafrasando Z. Bauman, persino il sesso, tradizionalmente attività molto privata e riservata, da cui la sua potente capacità di creare solidi legami tra le persone, oggi viene pubblicizzato e privato della sua riservatezza, quindi anche spogliato del potere di tenere uniti uomini e donne.

 Di Genti e di Famiglie

Fregio sul lato sud dell’Ara Pacis. Mostra Ottaviano Augusto, la sua famiglia e la Gens Iulia durante una cerimonia religiosa o l’inaugurazione stessa del monumento.

 Nella fattispecie dunque, la postmodernità, attraverso meccanismi spersonalizzanti e snaturanti rivolti agli individui che vengono omologati e appiattiti, da l’ultimo assalto in verità a quello che è da sempre il pilastro portante di ogni civiltà e cioè la famiglia con tutti i suoi relativi contesti, i suoi legami e le sue figure. Dinamiche, quelle famigliari, messe in pericolo da svariati fattori tra cui un’accelerazione subita dalla vita in senso generale, unita da un lato, ad una distorsione della percezione e delle aspettative che se ne ha di essa, dall’altro, al senso di insicurezza del quale è pervasa l’intera società e che trova origine nella mancanza di stabilità in tutte le direzioni, dal lavoro sempre più incentrato su rapporti precari, alla stessa fluidità nelle relazioni sociali con la quale, volenti o nolenti, bisogna rapportarsi. Nel caso del rapporto di coppia in particolare non c’è più la legge dell’Eros e del Pathos – incarnata dal Mito di Orfeo ed Euridice – a definirlo, ma modelli ben più narcisistici e veniali che riflettono infatti quella generale regressione a cui la società è soggetta – che ci viene spacciata come emancipazione – ma che altro non è se non un’involuzione cannibalistica.

Orfeo ed Euridice, Arno Brecker.

 Come ancora una volta fa notare Z. Bauman: “Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti umani, tende a essere considerata male, come una minaccia: dopotutto, qualsiasi giuramento di fedeltà e ogni impegno a lungo termine (per non parlare di quelli a tempo indeterminato) sembrano annunciare un futuro gravato da obblighi che limitano la libertà di movimento e riducono la capacità di accettare le opportunità nuove e ancora sconosciute che (inevitabilmente) si presenteranno. La prospettiva di trovarsi invischiati per l’intera durata della vita in qualcosa o in un rapporto non rinegoziabile ci appare decisamente ripugnante e spaventosa”.

 Nell’antica Grecia l’oikos, che significa famiglia, era la base su cui si fondavano il demos e la polis, aveva una struttura patriarcale in cui il kyrios, l’uomo più anziano, rappresentava la sua famiglia davanti alle autorità e tutelava le donne e i minori che vivevano nella sua casa. Lo stesso valeva nella familia romana, su cui si fondava la gens, in cui il pater familias era detentore della patria potestas e cioè il potere indiscusso sui figli maschi, sulle donne e sul patrimonio. Strutture queste che, nonostante i mutamenti nel corso delle epoche, rimasero invariate fino all’avvento della rivoluzione industriale.

 Persino K. Marx, il cui pensiero deformato dalla Scuola di Francoforte ha portato all’attuale concezione liquida, post-’68 di società, aveva avvisato dei pericoli connessi alla disgregazione della famiglia considerata da egli stesso la cellula fondante della società in contrapposizione all’individualismo tipicamente alla base del liberalismo. Nel momento in cui la prima macchina a vapore ha cominciato a funzionare si è innescato un processo che metteva in relazione individui e Nazioni in un nuovo ordine il quale, nello specifico, strappava la donna al suo ruolo di nutrice e al suo luogo naturale che era il focolare.

 La vera emancipazione della donna, in questa ottica, va cercata nella scelta e non nel bisogno di lavorare. Questa emancipazione può avvenire soltanto attraverso la costruzione di una società, da un lato, socialista, collettivista, comunitarista che comporti un’inversione di tendenza nei modi di produzione e dall’altro, tradizionale che ricongiunga l’individuo alla continuità con il proprio passato, alla famiglia, alla gens, al clan, alla comunità in contrapposizione ai meccanismi della società attuale consumistica, femminilizzata, nutritiva ma assolutamente non matriarcale come quelle del passato.

 Il Libro Verde di Qadafi, in questo senso, è stato un ottimo punto di riferimento nel perseguimento di quell’obiettivo in cui «la donna è padrona di casa così come l’uomo è padrone del suo posto di lavoro» e nel quale la famiglia veniva intesa come l’anello di congiunzione tra l’individuo, la tribù, la Nazione, la civiltà in una successione di cerchi concentrici veicolati da un’idea condivisa di giustizia sociale rivolta a nobilitare l’umanità e strapparla alla logica capitalistica che vede il singolo come mera unità di produzione e di consumo.

 L’articolazione e il legame famigliare, dunque è ciò che di più atavicamente sacro vi sia e dal punto di vista sociale, e non bisogna dimenticare che oggi ci troviamo in un’epoca in cui, come accennato prima, due distinte e opposte metafisiche si stanno scontrando, all’uomo come alla donna è richiesto un atto eroico per sfuggire alla logica luciferina dominante. Sostiene J. Evola: “Uomo e donna si presentano come due tipi, e chi nasce uomo deve compiersi come uomo, chi donna come donna, in tutto e per tutto, superando ogni mescolanza e promiscuità: e anche nel riguardo della direzione sovrannaturale, uomo e donna debbono avere ciascuno la propria via, che non può essere mutata senza incorrere in un modo contraddittorio e inorganico di essere.

 Il modo di essere che corrisponde eminentemente all’uomo, lo si è già considerato; e si è anche detto sulle due forme principali di approssimazione al valore dell’«essere a sé»: Azione e Contemplazione. Il Guerriero (L’Eroe) e l’Asceta sono dunque i due tipi fondamentali della virilità pura. In simmetria con essi, ve ne sono due per la natura femminile.

 La donna realizza sé stessa come tale, si eleva allo stesso livello dell’uomo come Guerriero e come Asceta, in quanto è Amante e in quanto è Madre. Bipartizioni di uno stesso ceppo ideale, come vi è un eroismo attivo, così ve ne è anche uno negativo; vi è l’eroismo dell’assoluta affermazione e vi è quello dell’assoluta dedizione – e l’uno può esser luminoso quanto l’altro, l’uno può esser quanto l’altro ricco di frutti in sede di superamento e di liberazione, quando sia vissuto con purità, con significato di offerta. Appunto questa differenziazione nel ceppo eroico determina il carattere distintivo delle vie di compimento per l’uomo e per la donna come tipi.

 Al gesto del Guerriero e dell’Asceta che, l’uno a mezzo dell’azione pura, l’altro a mezzo del puro distacco, si affermano in una vita che è di là della vita – nella donna corrisponde quello del darsi tutta ad un altro essere, dell’essere tutta per un altro essere, sia esso l’uomo amato (tipo dell’Amante – donna afroditica), sia esso il figlio (tipo della Madre – donna demetrica), in ciò trovando il senso della propria vita, la propria gioia, la propria giustificazione”.

 L’Epoca Oscura

Apollo Pitico, Città del Vaticano.

 R. Guenon definiva la nostra epoca – il Kali Yuga – come un’era con caratteristiche specifiche. Dominata da un sapere di tipo nozionistico e incentrata sulla quantità anziché sulla qualità, fatto questo che innesca processi uniformanti che si evolvono in una tendenza ad un appiattimento livellante degli individui. Pervasa da una frenesia esistenziale, lavorativa e persino di pensiero, laddove il vecchio concetto di lenta conoscenza e acquisizione di qualità viene trasformato oggi in un inesauribile fretta di raggiungere lo scopo attraverso un paradigma razionale e meccanicistico che, nel suo distacco dalla visione spirituale, paradossalmente trasforma in un rigido dogma la stessa scienza anche quando essa appare inadatta a descrivere gli eventi. La religione stessa, in contrapposizione rispetto allo spirito tradizionale, viene svuotata dei contenuti ritualistici e sacrali e tenuta in piedi quasi come una scatola vuota in cui tutto diventa una mera formalità.

 Man mano che si avanza nel tempo emergono anche dei caratteri di sovversione che si manifestano immediatamente in una discesa verso il disordine ed una spiritualità invertita. La sovversione produce il rovesciamento degli ordini tradizionali come fattore di vita ordinaria. Tale tipo di sovversione evidenzia i segni tangibili della tendenza alla contraffazione degli aspetti originali e persino della parodizzazione degli stessi. Tutto diventa innaturale e feticistico come lo stesso rapporto tra i due sessi e il modo di vivere sessualità e relazioni sociali, nonché il diffuso processo di democratizzazione, che anch’esso caratterizza la nostra epoca, soggiace ad una deformazione della logica nutritiva e dell’anima “materna”, estricandosi in una generica standardizzazione più che una fattiva uguaglianza nel senso di giustizia sociale e dignificazione dell’essere umano con i suoi ruoli definiti e i suoi tempi scanditi.

Venere di WIllendorf. Raffigurazione paleolitica della Grande Madre pre-indoeuropea.

 Non più una società gerarchica, dall’anima maschile tipicamente indoeuropea, fatta da Padri e da Madri, ma una società delle Madri che non è delle Madri. Un ritorno, dal punto di vista simbolico, ad un’unica Grande Madre, di memoria pre-indoeuropea, ma che non rappresenta né riproduce nemmeno un matriarcato come quelli paleo-europei data la sua natura perversa e degenere, per cui, tanto meno riconducibile ad un simbolismo cristiano, quello della Santa Vergine, che soprattutto nelle società cattoliche e mediterranee ha reintrodotto, o reso possibile, la persistenza di forti elementi matriarcali negli stessi patriarcati, che restavano comunque saldamente patriarcati: slanciati verso l’alto da una cosmovisione apollinea verso un «Padre Celeste» del quale la Madre ne era un riflesso in terra. La nostra epoca è invece dominata da una metafisica materialista e da una spiritualità al contrario all’insegna di una Grande Madre oscura, ctonia e ibrida anziché luminosa, lunare e femminile – incarnata oggi dalla piovra oligarchica e plutocratica – che alimenta e rimesta il caos sottostante come in un calderone.

 Nell’attuale società nutritiva, le carenze affettive, il vuoto interiore, il senso stesso dell’esistenza è delegato all’acquisto di beni superflui o di rapporti instabili, fugaci che riempiono le case e le vite delle persone. Da un lato, maschi deboli in un mondo difficile e con meno opportunità che non hanno motivazione per vivere e nessuna idea per cui battersi, maschi remissivi e narcisisti che usano gli altri per confermare un’identità fragile, evanescente, senza punti fermi e valori. Dall’altro, donne che in una società delle madri non hanno saputo produrre una società matriarcale come quelle antiche e che si illudono di un’emancipazione alla quale non sono valse a nulla le battaglie femministe per la parità sindacale ma fondata sull’inganno di una riappropriazione del proprio corpo e della propria vita nello stesso momento in cui sono state emancipate da chi deve trarre vantaggio dallo sfruttamento di chiunque, uomo o donna che sia.

 Una società di “eguali” dunque quella del Kali Yuga, che però non hanno le stesse possibilità per affermarsi e nella quale, come sempre notava R. Guenon: “balza all’occhio, da qualunque punto di vista si osservino le cose, che nell’insieme di quanto costituisce propriamente la civiltà moderna si deve immancabilmente constatare come tutto appaia sempre più artificiale, denaturato e falsificato”. L’unica struttura orizzontale in verità è quella della competizione per le energie animiche in termini egoici tra individui slegati, non uomini e donne verticali in lotta contro i propri limiti e con ritmi scanditi dai propri ruoli biologici e sociali, ma soggetti indistinti e avulsi che percepiscono le proprie vite come eternamente precarie e insensate. Spesso affetti da depressione maggiore, trovano rifugio nei circoli viziosi delle dipendenze di vario tipo, oppure vengono loro proposti ansiolitici ed anti-depressivi come palliativo di quell’insoddisfazione alla base dei loro conflitti interiori, frustrazione che non trovando opportuna risposta o un sano sfogo verso l’esterno, finisce per esplodere all’interno in guerre intestine che si manifestano in maniera del tutto infausta.

 La Frigia Madre

Fontana di Cibele, Madrid.

 Una società che ruota su sé stessa in cui, dal punto di vista immaginifico, non solo gli antichi archetipi della genitorialità incarnata da Giove – Padre, forte e dall’autorità incontrastabile – e Giunone – Madre comprensiva e Moglie remissiva ma saggia e giusta; gli archetipi dell’istinto e della sana aggressività ponderata dalla ragione incarnati da Marte e Minerva; quelli della bellezza, dell’estetica e della vanità solare incarnati da Apollo e Venere sono scomparsi e sono stati nascosti dal sistema intrapsichico collettivo, ma anche i potenti Miti cristiani della Sacra Famiglia; della Sapienza mai slegata da Fede, Speranza e Carità poiché di esse Madre; i Miti virili degli Arcangeli e dei Santi Guerrieri, quelli femminili della Fides e della Pietas delle Tre Marie, il fanatismo dei Martiri e l’estremismo degli Asceti sono stati sostituiti dalla predominanza di un Logos di Cibele allogeno – quello della «Frigia Madre», estraneo al nostro più intimo sentire come lo fu per i Romani al momento dell’introduzione del suo culto dalla Cilicia, terra tradizionalmente di pirati – «auto-castrante», all’insegna di un “politically correct” che promuove una genitorialità indefinita, un perpetuo senso di colpa per ciò che si è. Bandisce sia l’aggressività virile – che non trovando sfogo in modo naturale emerge sotto forma di autodistruttività e isterismo polemico, irritabilità, petulanza, maniacalità – sia la sensualità e la vanità femminile che vengono considerate poco funzionali, inadatte ai tempi moderni nel nome di un falso ideale di modestia nello stesso momento in cui l’erotismo lo si sostituisce con volgarità, voyerismo e pornografia, il culto del bello con quello dell’orrido: l’estetica non più rappresentazione del divino, diviene un’eruzione che come un incubo emerge dalla parte più oscura dell’anima del mondo.

 Un sistema di valori che impone ai popoli un’idea della vita utilitaristica e tecnicista tipicamente anglosassone, mercatista e mercenarista di concezione talassocratica, rapporti umani di convenienza, vampirici e poco duraturi; il sacrificio e l’abnegazione per una causa intesi come inutili sprechi a cui preferire l’edonismo, quello sciatto, del piacere immediato. Dove il fanatismo e l’estremismo perdono la loro aristocratica e stoica connotazione di intransigenza, integrità, imperturbabilità, riducendosi ad arroganti prese di posizione al mero fine di apparire, l’umiltà viene sostituita dalla paura e dalla sottomissione di fronte a coloro dei quali si vorrebbe prendere il posto.

L’introduzione del Culto di Cibele a Roma, Andrea Mantegna.

 Nelle sue lezioni di introduzione a Noomachia, A. Dugin, parlando del Logos di Cibele fa notare come le società matriarcali pre-indoeuropee fossero prive degli elementi di slancio verticale – di quella proiezione platonica potremmo dire – tipici delle posteriori società turaniane e di come in quella metafisica, della quale il Logos di Cibele è emanazione in senso degenerativo, vi fosse solo l’esistenza di una madre che crea, nutre, distrugge e partorisce e quindi tutto procedesse da lei e ritornasse a lei.

St. George the all-Victorious (Eternal Struggle and Eternal Victory), Vladimir Kireyev.

 A. Dugin afferma a tal proposito: “Ciò implica un’immagine completamente diversa del cosmo, al centro del quale c’è lo spazio chiuso all’interno della terra e non lo spazio aperto del cielo azzurro con gli occhi rivolti al sole. L’elemento centrale non è il fuoco solare, ma l’acqua terrestre, non è il giorno, ma la notte, non è il maschio, ma la femmina. Il matriarcato non corrisponde alla versione femminile della dominazione maschile (indoeuropea), ma è un particolare tipo di società basata sull’eufemismo: la morte è vita, l’oscurità è luce, la sofferenza è gioia, il passivo è attivo”.

 Allo stesso modo ma in un processo inverso, nel mondo attuale, i Miti, simboli su cui si fondano le storie dei popoli e le loro origini, vengono estirpati insieme all’eroismo e alla sacralità precludendo il contatto con il divino attraverso quei sigilli che legano agli archetipi e alla dimensione trascendente nel nome di una cosmovisione ibrida e acausale in cui gli opposti coincidono. Sul piano del rapporto tra i sessi, uno dei più potenti archetipi, è l’Androgine, simbolo dell’armonia tra due polarità opposte e complementari ma anche dell’integrazione dell’Ego con l’Inconscio e quindi, in termini Jungiani, della ragione con l’Anima nei maschi e con l’Animus nelle femmine. Quando queste si uniscono si raggiunge la realizzazione del Sé, coniunctio oppositorum che per potersi compiere è stata necessaria la presenza dei due principi distinti. Dalla distruzione di questo archetipo nel sentire collettivo ne risulta un abominio che non presenta nessun tratto maschile o femminile, un anti-archetipo che legittima la disforia di genere come possibilità di scelta della propria sessualità in una natura che non permette neanche la scelta di voler nascere o meno.

 Androgine capovolto alla base di una società devirilizzata che allo stesso tempo non ha nulla di femminile, fondata sul senso di colpa dei maschi di essere nati maschi in un mondo di femmine che si sentono colpevoli di non essere nate a loro volta maschi. Un uomo snaturato quindi, al massimo regredito a “uomo fallico” dalla mera virilità fisica senza quella proiezione apollinea che, secondo J. Evola, solo l’iniziazione può dare. Donna a sua volta regredita ad uno stato di competizione con l’uomo per il potere, potere non tanto materiale quanto animico. Un tipo di donna che non si rispecchia nella femminilità indoeuropea che, come già detto, riecheggia in Miti femminili come quelli di Afrodite e Demetra, l’una amante e l’altra madre dell’uomo ed entrambe legate all’uomo, ma tantomeno si riflette in Miti come quello di Atena, guerriera e slegata dall’uomo ma compagna dell’uomo.

 Un vero e proprio sovvertimento se non altro, di quello schema simbolico, armonico e universale, descritto da Platone nel Convivio, della Ierogamia (Nozze Sacre) tra il Logos (Intelletto, Principio Maschile) e la Sophia (Sapienza, Principio Femminile) attraverso l’Eros (Amore) che facendo leva sul Kalos (Bellezza) li conduce al cospetto della Aletheia (Verità, Realizzazione). Ideale della Grecia classica che riecheggia nei Salmi e nei Proverbi dell’Antico Testamento, nel quale proprio il principio assimilato alla Donna, cioè Sophia, era idealizzato come Centro e Anima del Mondo e personificazione della Sapienza Eterna che custodisce la Scienza delle Cose e la Sapienza di Vita a cui tende la parte migliore dell’anima dell’Uomo.

 Sull’uguaglianza

L’operaio e la kolchoziana, Mosca.

 Già agli inizi del secolo scorso, A. Gramsci che tra i teorici marxisti consideriamo tra i più lucidi e lungimiranti, con la sua elaborazione della teoria egemonica aveva già fatto intendere profeticamente che il nemico non era solo il capitalismo in sé ma anche tutto quel corollario di disvalori annessi, palesi o celati sotto mentite spoglie, e soprattutto qualcosa di più recondito che vi si nascondeva dietro e ne tesseva le trame. A. Gramsci, oltre a mettere in guardia dai pericoli derivanti da un dogmatismo materialista che abbatteva le identità religiose e culturali in senso universale e totalitario, poneva l’accento su quello che si prospettava da un appiattimento della società sulla direttrice dei rapporti tra uomo e donna.

 La III Internazionale creò il Segretariato internazionale femminile, presieduto da Clara Zetkin, e invitò i partiti comunisti a costituire analogamente propri organismi, nazionali e locali, per il lavoro femminile. A questa indicazione si attenne il Partito Comunista d’Italia, costituendo, presso la segreteria centrale, una commissione femminile. Da Torino si rispose a quell’invito con uno scritto, apparso il 10 marzo 1921 su L’Ordine Nuovo – primo quotidiano del Partito, fondato e diretto dallo stesso Antonio Gramsci – con il titolo “Il nostro femminismo”.

Il nuovo slogan, Gely Korzhev.

 Diceva: “[…] Il «femminismo», quale oggi appare nei suoi sostenitori, col suo programma limitato alla affermazione della parificazione dei due sessi, non può offrire alle donne, e tantomeno alle proletarie, il rimedio alla loro presente doppia servitù e la promessa di un avvenire migliore. L’uomo e la donna hanno nella vita una funzione loro propria, hanno nella loro natura dei propri valori fisici, intellettuali e sentimentali: si tratta di porre l’uno e l’altro in condizioni tali che ognuno possa liberamente svolgere, manifestare e utilizzare tali valori a beneficio proprio e della collettività. Liberato l’uomo e la donna da ogni servitù economica, posti nella possibilità di scegliere quella specie di produzione verso cui si sentono più attratti, e della quale si riconoscono più capaci, restituita ad entrambi la vera libertà di fronte alla propria natura, l’uno e l’altra potranno cooperare insieme ed intensificare, arricchire, abbellire la vita dell’umanità: seguendo ognuno la via che gli è segnata dalla natura, valendosi delle potenzialità di cui dispone, creando in sé delle possibilità nuove, nel continuo processo di evoluzione e di differenziazione che accompagna e determina la storia umana. La società umana deve utilizzare gli uni e le altre quanto più e quanto meglio è possibile, liberandoli da tutte le servitù. […]”.

 Dove liberare la donna da tutte le servitù non era riferito alla vana questione di ordine morale sulla superiorità o inferiorità dell’uno o dell’altro sesso, al pensare di risolverla con l’affermazione o la dimostrazione che la donna non è inferiore all’uomo, o con la richiesta dell’equiparazione dei due sessi, qual era intesa già all’epoca dal femminismo, ma sull’esigenza concreta del come liberare la donna dalla schiavitù domestica, pur non trascurando i valori che sono nell’istinto materno, nella capacità femminile di creare e rendere dolce e riposante l’intimità, la casa, la famiglia: valori che dovevano essere conservati e considerati fondamentali, poiché non era prevedibile quale maggiore intensità ed elevatezza essi avrebbero potuto acquistare in un tempo e in una società in cui, la vita materiale essendo per tutti meno dura e meno difficile, la vita dello spirito si sarebbe fatta più esigente, più intensa e più alta in tutte le sue manifestazioni.

 Valori in antitesi al femminismo radicale di matrice liberale che invece, nel nome di un uguaglianza formale, ha reso precaria e cupa la vita famigliare – quando essa sia possibile – nonché effimere le gioie da essa derivanti con figli che crescono senza l’esempio dei padri e il dovuto affetto delle madri.

 Non di meno, tornando ad una prospettiva evoliana, la reazione migliore e più autentica contro il femminismo e contro tutte le sue aberrazioni non dovrebbe essere diretta alle donne in quanto tali, ma agli uomini. Non ci si dovrebbe aspettare che le donne tornino a ciò che sono realmente e quindi ristabiliscano le condizioni interiori ed esteriori necessarie per la reintegrazione di una razza spirituale superiore, quando gli uomini stessi mantengono solo la somiglianza della vera virilità.

Venere e Marte, Antonio Canova.

 D’altra parte il femminismo aveva mille ragioni – la donna così come non è, e cioè inferiorizzata, marginalizzata, oggettivizzata – è stata inventata dall’uomo. La donna che intrinsecamente ha ricchezze biologiche e psichiche immense, che a parte la muscolatura, è per molti aspetti più forte dell’uomo, il quale ad esempio, come scriveva il neurofisiologo Gregorio Marañón, se fosse sottoposto alla fatica della gestazione e del parto morirebbe, si è trovata nella condizione di dover imitare, non solo l’uomo ma il peggio dell’uomo nella sua prepotenza, nella sua fallace pretesa di essere autosufficiente, nel gioco del potere e nel potere stesso.

 Questa competizione ignobile e stupida non poteva e non può che creare dinamiche affettive negative e produrre una società caotica senza Madri, come infatti di nuovo J. Evola sostiene: “In una esistenza inautentica, il regime dei diversivi, dei surrogati e dei tranquillanti proprio alle tante «distrazioni» e ai tanti «divertimenti» di oggi, non lascia ancora presentire al sesso femminile la crisi che attende la donna moderna nel punto in cui essa riconoscerà quanto quelle occupazioni maschili, per le quali ha tanto combattuto, siano prive di senso, nel punto in cui le illusioni e l’euforia delle sue realizzate rivendicazioni svaniranno, nel punto in cui, d’altra parte, essa constaterà che, dato il clima di dissoluzione, famiglia e prole non possono più darle un senso soddisfacente della vita, mentre per via della caduta della tensione anche uomo e sesso non potranno più significarle gran cosa, non potranno più costituirle, come fu il caso per la donna assoluta tradizionale, il centro naturale dell’esistenza, ma le varranno soltanto come uno degli ingredienti di una esistenza dispersa e esteriorizzata vicino a vanità, sport, a culto narcisistico del corpo, a interessi pratici e simili. Gli effetti distruttivi che nella donna stanno producendo così spesso una vocazione sbagliata, storte ambizioni e anche la forza delle cose, vanno dunque messi in linea di conto”.

 Ma soprattutto una società senza Padri, poiché “così, quand’anche la razza degli uomini veri non fosse quasi scomparsa, l’uomo moderno conservando ben poco di ciò che è virilità in un senso superiore, oggi resterebbe problematico il detto circa la capacità dell’uomo vero a «riscattare», a «salvare nella donna la donna»”.

 Terre dei Padri

Il Ratto delle Sabine, Jacques-Louis David.

 Alle dinamiche malsane e contorte del rapporto conflittuale tra i sessi imposto dalla postmodernità bisogna aggiungere altri processi che vanno di pari passo alla disgregazione famigliare a cui l’occidente soccombe e che nello specifico hanno a che fare con la scomparsa dei Padri intesi in senso più profondo, come coloro da cui deriva il termine «Patria».

 La macchina della globalizzazione produce infatti, dinamiche migratorie artificiali che sacrificano le difese immunitarie degli Stati sull’altare della libera circolazione – non di culture e tradizioni differenti che arricchiscono – ma di uomini senza volto e a loro volta sradicati e resi merce. Dinamiche neo-coloniali attraverso le quali si deportano loro malgrado, per mezzo di stati permanenti di depauperizzazione delle loro nazioni, il canto delle sirene delle O.N.G. e l’inganno di un futuro migliore, giovani di altre popolazioni però ancora connesse al proprio universo archetipico, alla propria spiritualità di popolo, giovani poco o affatto istruiti, ma forti com’erano i nostri nonni che avevano una innata pulsione identitaria capace di tramandare valori e consuetudini ai figli.

 Nuove popolazioni che sostituiranno chi non è riuscito a preservare la continuità con un passato in cui Popoli forti si proteggevano fortificando i villaggi e alzando il ponte levatoio dei propri castelli, e che a loro volta saranno sostituite da nuove migrazioni nel momento in cui perderanno inevitabilmente quella coesione e quella proiezione. Genti che paradossalmente sono ancora portatrici di quella sana consapevolezza della propria identità, della propria e non di quella di coloro che le ospitano dalla quale invece sono completamente slegate e in cui mai si integreranno percependola estranea nel migliore dei casi, se non addirittura, quando mossi per altre ragioni, da spirito di conquista, la sentono minacciosa, ostile e sicuramente ripugnante.

 L’episodio della notte di capodanno del 2015 a Colonia in cui migliaia di donne tedesche vennero molestate in massa e qualcuna stuprata da immigrati e cosiddetti “rifugiati” di origine araba è emblematico in questa accezione. Sarebbe ingenuo intendere l’episodio come un mero sfogo generale di pulsioni sessuali represse, fu invece un metodico e calcolato atto di guerra psicologica con lo scopo di umiliare e minare il morale del “nemico”. Nel corso della storia lo “stupro di guerra” ha sempre avuto questa funzione, nella Bibbia è menzionato più volte, nell’antica Roma il leggendario “Ratto delle Sabine” ne costituisce una eco mitica e il reale motivo per cui accade concerne la sfera simbolica: l’energia virile del vincitore ha prevalso sul vinto e tale responso viene suggellato con la penetrazione delle donne appartenenti ai vinti.

 Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la pulsione sessuale ma le donne vengono disonorate perché il messaggio della superiorità del vincitore entri in profondità nella psiche del vinto. Se da un lato un episodio del genere sarebbe stato altamente improbabile in città come Palermo, Siviglia o Salonicco, luoghi caratterizzati da quel tipo di «arretratezza culturale» per cui esiste ancora un’intima memoria storica e una certa resistenza psichica alla castrazione globalista, quella notte è stato inviato un messaggio antico ed archetipico alla società europea e occidentale da persone che la deridono per come essa è attualmente e che, rifacendosi ad una visione deformata della loro stessa cultura, la considerano nemica sin da tempi remoti. Persone comunque appartenenti a popoli che hanno ancora una concezione arcaica dell’energia maschile ed una marcata consapevolezza della propria identità.

 Consapevolezza questa che nella nostra società viene classificata come patologia (xenofobia) e che in realtà è alla base della percezione del Sé che comporta quella dell’altro come diverso e distante nel concetto fisiologico di diversità, alla base della vera multiculturalità di bizantina memoria, contrapposta ad un concetto di uguaglianza innaturale e forzata, dal momento che, anche in questo caso, nella società globale liberale, l’unica costante egualitaria è quella di essere omologati nello sfruttamento e nella mercificazione e non nella dignità.

 Se così fosse, infatti, come sostiene A. Dugin, sempre nelle sue lezioni introduttive a Noomachia, non si presupporrebbe che l’umanità debba conformarsi al modello dell’uomo moderno che è una concezione tipicamente anglosassone e che rappresenta solo il modo di tale popolo di sviluppare la propria civiltà – non è universale e non può esserlo – dato che ogni gente ha un percorso civilizzazionale diverso con una diversa visione di diritti e doveri oltre che un differente contesto socio-economico, culturale, spirituale su cui sviluppare ed evolvere quell’idea dignificando di fatto l’essere umano in maniera pertinente al proprio logos in una prospettiva di convivenza multipolare come proposto dalla Quarta Teoria Politica.

 Il liberalismo moderno, in tal senso è assolutamente razzista poiché si fonda sull’universalismo di un’esperienza storica delimitata nel tempo e nello spazio. Secondo la percezione del mondo dal punto di vista del liberalismo globalista chiunque non abbia ancora condiviso i suoi precetti non è un rappresentante di una cultura incamminato in uno specifico percorso civilizzatorio degno di esserlo, ma un uomo non ancora del tutto sviluppato e che è in procinto di diventare come noi: moderno, liberale, “bianco”. L’idea moderna di “tolleranza” deriva proprio da tale considerazione di imperfezione e incompletezza che abbiamo dell’altro a cui non è riconosciuta alcuna dignità nel suo essere diverso. Un’idea, quella della globalizzazione liberale, fondata su un suprematismo culturale anglosassone che abbattendo e travolgendo ogni diversità sia essa culturale che religiosa, razziale o sessuale intende imporre ad un mondo di individui indifferenziati un unico dogma incontestabile: l’uguaglianza nelle leggi e negli ingranaggi del mercato e del capitale.

 Maschi Selvaggi

G. D’Annunzio e i suoi Legionari a Fiume.

 E in questo senso esistono ancora, secondo la categoria brillantemente analizzata e lucidamente descritta da R. Giacomelli nel suo libro “Oltre il maschio debole – Prospettive per ritrovare la Via del Guerriero”, soggetti che spesso inconsapevolmente lottano ancora per questa civiltà allo stato terminale, indigesti per una società vile, che per questo li aveva relegati ai margini selezionandoli sin dall’infanzia, emergono prepotentemente dallo stomaco della Bestia che li rigurgita.: «maschi selvaggi» dai quali poter ripartire per riaffermare l’ordine e l’armonia naturale.

Toraômaru cavalca la tigre, Tsukiyoka Yoshitoshi.

 Impulsivi e con capacità superiori alla media, e che per questo difficilmente faranno mai carriera, poiché spaventando colleghi e superiori vengono percepiti come pericolosi rivali quindi ostacolati e boicottati in ogni modo; intransigenti e insofferenti alle regole e alle istituzioni, soprattutto a quelle odierne di natura borghese, comunisti dopo la caduta del Muro di Berlino e fascisti dopo quasi un secolo dalla fine del Regime, sono sovversivi tra i conservatori e tradizionalisti tra i rivoluzionari ma – nel momento in cui accettano la gerarchia – intendono nobiltà d’animo e cameratismo come qualcosa al di sopra di tutto. Possessivi e territoriali che difendono i legami in modo feroce, amano appassionatamente e odiano senza riserve, «ultimi romantici» per i quali anche una semplice avventura erotica è la conquista della femmina di un’altra tribù, non sono inclini ai rapporti “liquidi” di una società senza confini ma delimitano i propri spazi con la loro concreta presenza; nati per essere maschi alfa, in una società che odia i capibranco, vengono messi da parte, marginalizzati, sabotati e piuttosto che unirsi al gregge finiscono per essere dei solitari; non se ne crucciano, abituatisi, si “differenziano” secondo l’accezione evoliana del termine. Fanno di necessità virtù: «cavalcano la tigre».

 Generosi oltre ogni limite e oltre le proprie possibilità finanche contro i loro stessi interessi; possono essere colti ed educati, ma quando il livello di guardia fa emergere il dáimon che li agita, di colpo si trasformano in lupi tra le pecore. Percepiscono il mondo come un ambiente avverso e non hanno torto, poiché questo mondo non li ama: li considera ingombranti residui di epoche già trascorse. Sono i discendenti spirituali dei cavalieri di ventura dell’Europa medievale, dei caciques, cangaceiros, conquistadores, e bandeirantes dell’America Latina, dei samurai e dei ronin del Giappone tradizionale. Vivono questo mondo come stranieri nella loro terra, il loro vero mondo è fatto di ideali e valori, avventure ed imprese; sono potenziali Waldgänger: figli di Thanatos, incarnano l’Anarca di Jünger.

 “Caratteri biliosi”: irruenti, instabili e irrequieti; non sono esempi raccomandabili, ma ancora incandescenti e vivi, sono gli ultimi detentori dell’archetipo maschile in una società frenetica e androgina popolata da meri individui indistintamente isterici e nevrotici. Erano ieri gli Arditi lanciati contro il fuoco della mitraglia nelle trincee nemiche, i ragazzi del ’99 in prima linea cantando e resistendo sui ponti del Piave, i Legionari di D’Annunzio a difesa della Città Olocausta.

 Sono oggi i ragazzi sempre più frequentemente radunati sotto la bandiera della dissidenza multipolare, delle resistenze identitarie e comunitariste – traditi dai partiti di destra e di sinistra – non perdono la fede nell’ideologia considerandola ancora la linfa della storia, ma avendo compreso l’inganno, si ricollocano trasversalmente: un glitch nell’ordine democratico borghese che li avrebbe voluti invece disinteressati, deideologizzati, dissuasi ed in balia del vento; non avendo più nulla da perdere, sognatori ispirati dai veri Imperi del passato, sono gli ultimi difensori delle piccole identità, della giustizia sociale e degli antichi valori nell’epoca dello sgretolamento e della dissoluzione, nell’impero globale della Nuova Cartagine e degli adoratori di Moloch.